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Rivelazioni

Cavaliere dell'Apocalisse

Per me l’Apocalisse riguarda il momento della resa dei conti finale. Durante l’isolamento, volevo esprimere i miei sentimenti sulle cause della covida e sul modo in cui la politica di destra stava conquistando il mondo. L’Apocalisse è ricca di immagini, utilizzate da molti artisti negli ultimi cento anni per trasmettere alle masse analfabete l’orrore della fine del mondo che ci attende. Come studente di storia dell’arte presso il Courtauld Institute di Londra, ho imparato a conoscere bene il tipo di immagini utilizzate, in particolare le incisioni di Albrecht Durer. Ho dipinto un murale dei cavalieri che galoppano su per le scale (3 con teste di animali e uno con una gabbia vuota), per riflettere le pratiche crudeli degli animali nei mercati cinesi e la rabbia che ho provato. Sul pianerottolo, ho dipinto la meretrice di Babilonia che cavalca la bestia a sette teste. Ogni testa della bestia era il ritratto di un politico di destra, tra cui Trump, Netanyahoo, Johnson, Putin e Bolsonaro. Teneva in mano la coppa della sporcizia, dei veleni e del male del mondo. Così, quando si è presentata l’occasione di realizzare una mostra per la Crumb Gallery, volevo che riflettesse la paura e l’impotenza che provavo nei confronti dell’Ucraina, di Gaza, delle democrazie che stanno scomparendo e dello spettro del totalitarismo. I cavalieri dell’Apocalisse, in questo senso, non rappresentano più bestie vendicative. Rappresentano la corsa verso la perdita della libertà – cavalieri umani responsabili del caos che accompagnerà tale perdita. Il rosso per la guerra, il nero per la carestia, il bianco per la conquista e il giallo per la morte. L’inchiostro che sfugge al controllo, le macchie che si formano
la carta che non potrà mai essere lavata via.

Recensione Outake

“…Riflette il clima attuale che stiamo vivendo, situazioni cupe e drammatiche legate a guerre e conflitti che incombono in questo preciso momento storico. Il termine Apocalisse è comunemente riferito all’Apocalisse di San Giovanni Apostolo o Libro dell’Apocalisse, nel Nuovo Testamento, scritto durante il suo esilio sull’isola di Patmos, ed è generalmente interpretato come la profezia della “fine del mondo” o piuttosto come “rivelazione degli eventi dei tempi finali”. Le figure, i simboli, gli elementi misteriosi e fantastici di questa narrazione visionaria hanno suscitato un grande fascino nel corso dei secoli, ispirando molta letteratura e molte rappresentazioni di arte sacra, a partire dall’arte dell’epoca carolingia. Artisti come Cimabue, Giotto, Signorelli, i fratelli Van Eyck, Dürer, Rubens, El Greco, tra gli altri, si sono confrontati con questi temi. Sophie Dickens, seguendo questa linea, ha studiato e approfondito la serie di quindici xilografie di Albrecht Dürer (1496-1498) e in questa mostra si concentra sui quattro sigilli, raccontati nel sesto libro, che quando vengono aperti danno vita ai quattro cavalieri dell’Apocalisse, su altrettanti cavalli, uno bianco, uno rosso, uno nero e uno verdastro a simboleggiare: guerra, morte, carestia e pestilenza. Al centro dello spazio, l’artista ha collocato il grande cavaliere con il suo cavallo rosso fuoco che brandisce la spada. Il cavallo ha le zampe sollevate, ti sembra di sentirlo nitrire e galoppare via. Guerra. Grande cavaliere apocalittico è una scultura di due metri, realizzata con tavole di larice, castagno e pino riciclate dalla ristrutturazione dell’Albergo dell’Angelo a Pieve di Teco, dove la scultrice vive in Liguria, combinate con colla resinosa, inchiostro e pigmento rosso terra di Siena.

Le sculture di Sophie hanno tutte un tratto distintivo. Costruisce armature con barre di metallo, come se fossero scheletri, su cui poi applica pezzi di materiale appositamente lavorato. I suoi soggetti riflettono un moderno primitivismo, sono immagini fantastiche che fanno riferimento alla natura, alla mitologia, all’iconografia classica, a cui è arrivata grazie alla Storia dell’Arte, attraverso l’osservazione di artisti come Michelangelo o Tiziano. Crea movimenti fatti di ossa, muscoli e tendini che ricordano gli studi del fotografo Eadweard Muybridge che, come lei stessa afferma, l’hanno influenzata nel suo percorso. Quel Muybridge che inventò lo zoopraxiscopio, per studiare e riprodurre il movimento degli animali, famoso per la sequenza di fotografie chiamata Il cavallo in movimento. Accanto al Cavaliere Rosso, in mostra, ci sono altre piccole sculture, che raffigurano tutti e quattro i cavalieri, insieme e disegni a inchiostro su carta, studi preparatori così come nella pratica dei grandi maestri del Rinascimento. Sono opere in cui si percepisce l’eco dei cavalli delle grandi battaglie, come quella di San Romano dipinta da Paolo Uccello.

Nel testo del catalogo, curato da Rory Cappelli, pubblicato dalla Crumb Gallery per l’occasione (serie NoLines), l’artista spiega la scelta di questo tema: “Volevo che la mia Apocalisse riflettesse la paura e l’impotenza che provo nei confronti dell’Ucraina, di Gaza, delle democrazie morenti e dello spettro del totalitarismo. In questo senso, i cavalieri dell’Apocalisse non rappresentano più bestie vendicative. Rappresentano la corsa verso la perdita della libertà e sono responsabili del caos che accompagnerà tale perdita”. Come sottolinea Rory Cappelli “la riflessione è sulla violenza, sulla guerra, sui conflitti, sulla mancanza di speranza. Eppure non è questa, la mancanza di speranza, che quei cavalli che si librano nel cielo danno a chi li osserva”. In greco Apocalisse significa “rivelazione” e come sostiene lo studioso Paul Beauchamp, uno dei più importanti biblisti, il messaggio più profondo di questi testi è legato al cambiamento, ci sono tempi che richiedono un cambio di direzione, la fine di una storia e l’inizio di un’altra, “la letteratura apocalittica è nata per aiutarci a sopportare l’insopportabile”. È nata per dare speranza, per dire che il male, alla fine, sarà sconfitto. Ed è proprio questo il messaggio che Sophie Dickens vuole lasciarci.

Apocalypse rimarrà aperto fino al 25 maggio 2024″.

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Parole di Rory Cappelli

“L’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è”, diceva Paul Klee ai suoi studenti. Parlava della sua arte; pensava alla capacità di creare immagini attingendo ai sogni, alle ombre, all’inconscio; con i suoi colori e i suoi oggetti evocava il mistero del cosmo. Rendere visibile ciò che è, che non è sempre così, per quanto i due artisti siano lontani in tutti i sensi, è un pensiero che viene in mente di fronte alle sculture di Sophie Dickens, quella capacità quasi soprannaturale di rendere il movimento, con un semplice pezzo di legno. Semplice. Sembra semplice, ma non c’è nulla di semplice nel lavoro di questa artista britannica che ha scelto l’Italia, la Liguria, come sua casa. Dietro ogni linea, ogni curva, ogni gesto, ogni figura, ci sono anni di studio, anni di tentativi ed errori, di riflessioni e sconfitte, di vittorie improvvise e di altri tentativi ed errori. Ci si rende conto di tutto questo quando ci si trova di fronte, ad esempio, alla scultura Judo che Dickens ha realizzato per le Olimpiadi di Londra del 2012: una mossa di judo resa in quello che sembra essere un movimento rotondo e fluido, con una ruvidità che ricorda Giacomo Balla. Un movimento semplice, davvero. Ma una scultura che è la sintesi perfetta dell’incontro tra due corpi, una scultura che riesce a trasmettere più di ogni altra conferenza l’essenza del judo con il suo massimo uso dell’energia (Seiryoku Zen’yo) e il progresso personale che si ottiene solo con l’uso dell’energia.
cooperazione degli altri (Jita-Kyoei). Sophie Dickens, che si è laureata in storia dell’arte al Courtauld Institute, ha frequentato la Sir John Cass School of Art e ha studiato presso il dipartimento di anatomia dell’University College, sempre a Londra, ha un’energia esplosiva e incontenibile, una creatività quasi magica e una cultura profonda, vasta e mai banale. Le sue opere sono spesso echi di storie, di maestri, di mitologia, come nel caso del Minotauro, di Ercole, di Leda e degli Angeli Caduti, tanto che non sorprende che sulla parete del suo studio sia scritto: “I soggetti mitologici rappresentano verità universali”.
Quel cavaliere con il suo cavallo rosso fuoco e la sua spada altrettanto rossa, alto due metri in groppa al suo destriero, in piedi con le gambe sollevate, con l’aria di chi sta per partire al galoppo e librarsi nel cielo, è la scultura “Guerra. Grande Cavaliere Apocalittico”. La sua materialità – tavole di larice, castagno e pino recuperate dalla ristrutturazione dell’Albergo dell’Angelo a Pieve di Teco, combinate con colla di resina, inchiostro e pigmento rosso di Siena – si fonde con la leggerezza che pervade il tutto, un ossimoro che è una delle tante abilità artistiche di Dickens. Per quanto il tema sia tragico, nelle sue sculture si può trovare una sorta di placida e candida speranza, emanata dalle venature del legno o dai segni sul metallo in cui sono fuse le figure stesse. Che si tratti di lupi, una specie in via di estinzione, cacciati, odiati, ripresi, che ululano alla luna o si cercano tra le fronde degli alberi, o di cinghiali, ugualmente uccisi, perseguiti, inseguiti, o di gufi che spiegano le loro ali alla ricerca del cielo, o di topi, pellicani, anatre, lepri, cani, scimmie, c’è sempre una promessa che erompe dalla materialità lasciando un senso di speranza e di lotta. Potente.
Anche nel tema di queste sculture, l’Apocalisse – che Dickens ha studiato e amato ai tempi del Courtauld Institute nella serie di quindici xilografie di Albrecht Dürer (1496-1498) – la riflessione è sulla violenza, la guerra, il conflitto e la disperazione. Eppure non è questo, la mancanza di speranza, che quei cavalli che si librano nel cielo danno a chi li guarda. Ma l’impulso di liberarsi dalle catene, di correre, gonfiando i polmoni, verso la libertà. O l’inconsapevolezza del fine certo verso il quale ci si avventura senza consapevolezza. “L’Apocalisse è un racconto ricco di immagini, quasi una raccolta di iconografie utilizzate nei secoli da molti artisti per trasmettere alle masse l’orrore della fine del mondo”, spiega Sophie Dickens. “Volevo che la mia Apocalisse riflettesse la paura e l’impotenza che provo per l’Ucraina, Gaza, le democrazie morenti e lo spettro del totalitarismo. In questo senso, i cavalieri dell’Apocalisse non rappresentano più bestie vendicative. Rappresentano la corsa verso la perdita della libertà e sono responsabili del caos che accompagnerà tale perdita. I cavalli e i cavalieri, come da tradizione, sono rossi per la guerra, neri per la carestia, bianchi per la conquista e pallidi per la morte”. Oltre a sculture di piccole e grandi dimensioni su questo tema, Dickens ha realizzato anche piccole opere in cui, dice, “l’inchiostro scorre senza controllo, con macchie che crescono sulla carta e che non possono mai essere rimosse”. Anche le opere su carta di Dickens’s Apocalypse hanno la stessa maledizione delle sculture: le macchie “indelebili” sembrano uscire di corsa dall’inquadratura e continuare ad uscire, come nelle fotografie di Eadweard Muybridge. Andare là fuori, dove anche noi li vedremo in tutto il loro orrore e la loro bellezza, dove “regna la perdita della libertà e il caos”, dove forse essendo
attraverso queste riflessioni su legno, metallo e carta, saremo in grado di ritrovare la nostra strada. Infatti, l’arte a volte “rende visibile ciò che non è sempre visibile”.